di Marcello Veneziani (Il Giornale) – Tre immagini emotive per raccontare la perdita reale dei principi di vita su cui si fondava il mondo di ieri, personale e comunitario.Vorrei parlarvi di Dio, patria e famiglia, anche se ne sono fuori. Difendo il loro ricordo e il loro valore, ma ho perso anch’io consuetudine di vita. Di fronte al loro perire di morte innaturale non trovo sostituti degni e veri, e da quel triplice vuoto che non si riempie io vorrei partire.
Vorrei parlarvi di Dio, patria e famiglia non come si fa in un saggio storico o filosofico, politico o sociologico, ma con tutto il cuore e la mente tesa, come di una cosa che ci riguarda da vicino e ci coinvolge interamente. Un saggio di pensiero popolare che cerca la sua dimensione spirituale nella realtà. Vorrei parlarvene non attraverso i luoghi comuni, quelli più antichi di chi li elogia e quelli più recenti di chi li disprezza. Non voglio tesserne l’elogio funebre o il necrologio onesto. Io vorrei capire quale molla spinse ad aggrapparsi così a lungo a quei tre cardini, come fu intenso e corposo il loro amalgama uno e trino, quale molla ha poi spinto ad affossarli, e cosa resta ora, oltre il rimpianto e la maledizione della loro ombra. E intravedere cosa può sorgere oltre la loro presenza e il loro declino.
Vorrei parlarvi di Dio, patria e famiglia perché so di parlare a ciascuno di voi delle esperienze che più ci toccano: quella di scommettere o meno su Dio, su una fede, su una religione fatta anche di pratiche, devozione e storie. Quella di partecipare alla sorte del paese natio, sentirsi legati a una comunità e sentire un luogo come la nostra casa. E infine quella di riconoscere le proprie origini in una famiglia: la propria infanzia, gli affetti più duraturi, le nascite e i lutti. Tutto ciò che di più significativo abbiamo vissuto passa dal rapporto d’amore, conflitto o dipendenza rispetto a quel triplice legame.
Parlare di Dio, patria e famiglia è dire del nostro essere al mondo. Non è solo un discorso teologico o politico, sentimentale o affettivo, biologico o spirituale, perché fra quei tre riferimenti primari scorre la nostra umanità intera e scorrono i nostri legami con la vita e la paura della morte, la parabola dei nostri anni dalla prima infanzia alla vecchiaia, i nostri soliloqui e i nostri più intensi colloqui, la nostra singolarità e la nostra universalità tramite le comunità. La verità della nostra condizione e le nostre più grandi menzogne ruotano intorno a essi. Non è dunque un motto, un grido di guerra o di propaganda politica, ma è il destino di una vita che si affida al cielo, alla terra e al seme.
Qualcuno dirà che c’è l’amore libero, c’è l’amicizia, c’è il lavoro individuale e sociale, c’è l’umanità intera e ci sono mille altre cose che non passano necessariamente da Dio, dalla patria e dalla famiglia. Ha ragione, ma nessuna come queste tre risponde in modo adeguato o inadeguato lo dirà poi ciascuno alla nascita, alla vita e alla morte in rapporto a un luogo e a un tempo. Ci sono passaggi ulteriori, però il nostro sé originario si trova a dover fare i conti con il luogo in cui è nato e cresciuto, con i suoi geni, con le persone da cui è nato o con cui è vissuto, o che egli ha fatto nascere, e infine con l’umana esigenza di rispondere alla domanda: finisce tutto qui o c’è dell’altro oltre me, le cose, il caos, il caso? Sono come altezza, lunghezza e profondità, le misure che dettero solidità alla nostra vita e che ora ne attestano l’evanescenza.
Già vedo la smorfia di sarcasmo e sufficienza su Dio, patria e famiglia. Molti si sentono superiori a quel trito passato e a quei superati pregiudizi. Ma non si rendono conto di quanto quei fantasmi giganteschi pesino sulle loro fughe, sulle loro spettrali solitudini, sulle loro meschinità. Dico loro, dovrei dire nostre. Il fatto è che ci siamo liberati di quei pregiudizi tramite un altro pregiudizio, la convinzione a priori che fossero «superati», a volte confondendo le forme di rappresentazione che sono figlie del proprio tempo con la fonte da cui scaturivano. In tal modo, bollandole come superate, nel nome di uno storicismo a sua volta rancido, non le abbiamo affrontate, capite e digerite. Le abbiamo solo evitate, non riuscendo però a evitare le ombre che si allungano sulla nostra vita.
E la notte risalgono come fantasmi, voragini e colpose orfanità, e cospirano col nostro presente malessere. È difficile valicare, o addirittura sgretolare, il muro di ovvietà che impedisce di pensare a Dio, patria e famiglia. È rimasto in piedi lo slogan ternario, ma con funzione inversa: ieri serviva a sancire un ordine rispettoso di certezze e pregiudizi, oggi serve a respingerlo a priori, consegnandolo al folclore imbalsamato del passato.
È difficile, mi rendo conto, sottrarre il tema all’ovvietà dei riflessi condizionati, ieri devoti e oggi repellenti. È difficile restituire vita e pensiero a un corpo rigido, su cui si è depositata la muffa. È difficile, ma è più che benefico ripensarci, forse necessario.