di Alessandro Nardone – Si da il caso che non sia mia intenzione tornare sulla questione – che, peraltro, ritengo noiosissima – Colonnelli sì, Colonnelli no. Non siamo interessati all’articolo, da queste parti. Piuttosto, trovo decisamente più produttivo soffermarmi sulla tendenza negativa che ha caratterizzato gli ultimi anni di vita della destra italiana, costellati da una serie interminabile di “strappi” e lotte intestine che si sono alimentate del nostro entusiamo, determinando risultati elettorali via via sempre peggiori e culminando, poi, con il cupio dissolvi della nostra area politica.
Cerco di spiegarmi meglio. Per anni, anzichè fare politica e, quindi, produrre risultati concreti a vantaggio della collettività, spesso (troppo) e volentieri ci siamo visti costretti a disperdere energie all’interno del nostro piccolo orticello. Insomma, siamo diventati autoreferenziali. Non combattevamo per difendere la nostra gente, ma ci accapigliavamo tra noi per sostenere questo o quel capocorrente. Con i nostri giovani non discutevamo di politica, ma mettevamo davanti ad i loro occhi il pessimo esempio di un partito diviso su tutto, ed incapace (tranne alcuni casi) di mettere in discussione il proprio Capo, salvo poi criticarlo non appena girato l’angolo.
Ci eravamo appiccicati addosso il distintivo di una fazione, e guardavamo la realtà attraverso lenti che c’illudevano che tutto il Mondo cominciasse e finisse all’interno di quello stesso perimetro.
Certo, allora eravamo appena ragazzi sinceramente convinti di fare la cosa giusta, che ne valesse la pena perchè, come ci dicevano, quelle inutili liturgie erano l’essenza stessa della “vita di partito”. Tutte balle.
Fatto sta che quell’avvitamento su se stessa produsse, per la destra, una sorta di psicosi collettiva, il trionfo del vorrei ma non posso: credevamo fermamente in determinati principi, ma eravamo costretti da chi stava sopra di noi a difenderne altri. In nome di chi e di cosa, poi? Meglio stendere un pietosissimo velo.
Ora, però, basta.
Basta con i complessi reducistici, basta (mi passerete il francesismo) con le seghe mentali incardinate su campanilismi privi di ogni senso, basta con il complesso d’inferiorità da cui deriva l’assurda convinzione che la destra non possa essere protagonista assoluta nella costruzione di un centrodestra nuovo, finalmente non più subalterno ad un berlusconismo che, oramai, percorre, lentamente ma inesorabilmente, il viale del tramonto. Sopratutto basta con la convinzione, da parte di alcuni, di ritenersi al di sopra di tutti e tutto. Scendano dal piedistallo e guardino in faccia la realtà, prendano atto dei loro errori e si mettano sullo stesso piano di tutti gli altri, se davvero vogliono contribuire a costruirla, una destra nuova.
Se c’è una cosa da fare, quella è scrollarci di dosso le tossine del passato e cominciare a lavorare fianco a fianco per trovare soluzioni ai problemi della gente, per risvegliare l’entusiasmo di un popolo, quello della destra e del centrodestra che, teorie bislacche a parte, è talmente schifato dallo spettacolo che ha dinnanzi a sè, da preferirgli la diserzione sistematica dalle urne. Per riuscire a convincere quella gente, però, dobbiamo convincere innanzitutto noi stessi, che una destra nuova e vincente sia davvero possibile.
Ritroviamo gli occhi della tigre, volgiamo lo sguardo al futuro, andiamo dritti per la nostra strada ed il ventro soffierà nelle nostre vele. Mentre qualcun altro cercherà di fermarlo con le mani.