di Alessandro Nardone – Passare dalle divisioni alle moltiplicazioni. Questo, in soldoni, è il concetto che dovremmo cominciare a perseguire fattivamente se vogliamo che il sogno di un nuovo soggetto in grado di rappresentare tutte le anime della destra che ambisce a governare l’Italia non rimanga tale. Anzitutto tengo a chiarire un concetto: non ho nulla contro Matteo Salvini che considero, anzi, una risorsa importante se non addirittura imprescindibile per il centrodestra che verrà; molto semplicemente, ritengo che lui e la Lega Nord possano essere degli ottimi alleati, ma non certo il punto d’approdo per chi abbia in animo di dare vita a una destra nazionale che coltivi l’ambizione di restituire pieno diritto di cittadinanza a un comune sentire che, nel Paese, continua a essere maggioritario.
A tale proposito, mi domando che senso abbia, mentre ancora ci lecchiamo le ferite causate dallo scioglimento di Alleanza Nazionale nel Popolo della Libertà, considerare l’ipotesi di essere fagocitati nuovamente da un soggetto altro che, per quanto affine su alcuni temi (non certamente tutti, almeno per quanto mi riguarda), nella più raggiante delle ipotesi, non costituirebbe che l’ennesima soluzione di ripiego. Eppure, non curante delle lezioni del recente passato, la variegata galassia della destra italiana pare godere nell’autoflagellarsi di continuo, alimentando la percezione che tragga la propria linfa vitale da una sorta di autolesionismo congenito, che spinge chi la rappresenta alla spasmodica ricerca di elementi di rottura, quasi a voler creare in laboratorio il pretesto attraverso cui giustificare – a loro stessi e agli altri – l’impossibilità di stare uniti e la conseguente necessità di accasarsi altrove. Accadde ieri con Silvio Berlusconi, e rischia di ripetersi oggi con Matteo Salvini. Pensateci.
Quando, nel 2011, pubblicai la prima edizione del mio libro “La destra che vorrei”, ero assolutamente conscio del fatto che sarebbe risultato indigesto ai più, visto e considerato che in quelle pagine mi spinsi a criticare apertamente tanto Berlusconi quanto Gianfranco Fini in una fase, è bene ricordarlo, in cui entrambi godevano ancora del favore di una grossa fetta dell’opinione pubblica, oltre che dei rispettivi “eserciti”. Tuttavia, il mio intento non è certamente quello puerile e poco costruttivo di limitarmi a rivendicare che «avevo ragione» ma, piuttosto, di prendere atto di quanto un’analisi siffatta possa essere assai più produttiva oggi che le bocce sono ferme o quasi che non ieri, quando gli animi erano ancora surriscaldati.
D’altra parte, quali che siano le singole convinzioni, vi sfido a trovare ancora qualcuno che non si sia dovuto arrendere di fronte alla triste evidenza dei fatti di un’area politica completamente rasa al suolo e tuttora votata all’immobilismo e financo all’autodistruzione del bunker in cui è rintanata. Allora, visto che sono abituato a guardare il bicchiere mezzo pieno, penso che non esista momento più propizio di questo per scrollarci di dosso le tossine delle divisioni da cui siamo stati contaminati in passato, per poi produrci in un slancio che possa consentirci di spiccare quel volo che non sarà pindarico solo se saremo capaci di mettere da parte discussioni di piccolo cabotaggio imperniate sulla rivendicazione del particulare, in ragione di un progetto inclusivo nel quale – partendo da un pugno di punti non negoziabili (penso all’amor di Patria, alla lotta senza quartiere a un fisco oppressivo, alla battaglia per l’Europa dei Popoli in antitesi a quella delle banche e dei poteri forti, alla difesa della nostra Civiltà, alla riaffermazione del concetto di legalità e della certezza della pena, allo sviluppo dell’economia attraverso il rilancio della cultura, alla tutela della Famiglia e dei più deboli) attorno a cui tutti noi possiamo stringerci – ci siano ampi spazi di discussione. Non più imposizioni calate dall’alto ma, semmai, una fusione con il basso, che trasformi il partito che verrà in un tutt’uno con la gente attraverso strumenti come la Rete e le Primarie, ma anche riacquisendo la funzione vitale di punto di riferimento per il territorio.
Ciò che dobbiamo a noi stessi ma, sopratutto, alla memoria dei nostri padri e all’avvenire dei nostri figli è un Movimento Nazionale che diventi la casa di tutte le donne e di tutti gli uomini di buona volontà che abbiano la forza e il coraggio di caricarsi sulle spalle la responsabilità del nostro destino. I tempi sono bui, certo, ma questo non significa che siamo condannati alla notte eterna.